Cinquantenario della sentenza 33/60
13 MAGGIO 2010: CINQUANTENNALE SENTENZA ACCESSO DONNE CARICHE PUBBLICHE
In 50 anni è aumentato drasticamente il numero delle donne lavoratrici nella Pubblica amministrazione, ma sono i poche a coprire i vertici. È quanto emerso durante la conferenza stampa di presentazione delle celebrazioni per il cinquantenario della sentenza n.33 della Corte Costituzionale, che il 13 maggio del 1960 dichiarò l’illegittimità della norma che impediva l’accesso alle donne alle principali carriere pubbliche.
Le donne in Italia, si legge, sono concentrate soprattutto nel settore dell’istruzione e della sanità ma, secondo i dati del conto annuale del ministero dell’Economia, ancora faticano a raggiungere la qualifica di primario (12,3%), prefetto (15%), professore ordinario (17,6%), magistrati presidenti di sezione della Corte dei Conti (14,6%), magistrati presidenti di sezione del Consiglio di Stato (13,2%).
I dati del conto annuale del Ministero dell’Economia mostrano, infatti, che poche donne raggiungono qualifiche come quelle di primario (12,3 ogni cento posti), prefetto (15%), professore ordinario (17,6%), magistrati presidenti di sezione della Corte dei Conti (14,6%), magistrati presidenti di sezione del Consiglio di Stato (13,2%). E solo due donne su 40 sono presidenti di sezione della Corte di Cassazione. Nella carriera diplomatica, nonostante le donne che partecipano ai concorsi siano più degli uomini, c’è solo una donna su un totale di 24 ambasciatori, solo 8 sono Capi Missione all’estero su 123 Ambasciate.
Ancora: una sola donna è giudice alla Corte Costituzionale, una è al vertice della Banca d’Italia, e nei consigli di amministrazione delle aziende quotate, su 2.753 posizioni solo 174 sono occupate da donne (5,8%) e nessuna donna è amministratore delegato o presidente di banca. Insomma, “dopo 50 anni non si può certo parlare di pari opportunità”, dice Rosa Oliva, la donna che, esclusa da un concorso pubblico che prevedeva l’accesso ai soli uomini, 50 anni fa intraprese l’azione giudiziaria che portò alla sentenza grazie alla quale le donne vennero ammesse alle principali carriere pubbliche.
di seguito il testo della storica sentenza:
SENTENZA N. 33
ANNO 1960
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
Dott. GAETANO AZZARITI, Presidente
Avv. GIUSEPPE CAPPI
Prof. TOMASO PERASSI
Prof. GASPARE AMBROSINI
Prof. ERNESTO BATTAGLINI
Dott. MARIO COSATTI
Prof. FRANCESCO PANTALEO GABRIELI
Prof. GIUSEPPE CASTELLI AVOLIO
Prof. ANTONINO PAPALDO
Prof. NICOLA JAEGER
Prof. GIOVANNI CASSANDRO
Prof. BIAGIO PETROCELLI
Dott. ANTONIO MANCA
Prof. ALDO SANDULLI
Prof. GIUSEPPE BRANCA
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 7 della legge 17 luglio 1919, n. 1176, promosso con ordinanza emessa il 12 giugno 1959 dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione IV, su ricorso di Oliva Rosa contro il Ministero dell’interno, iscritta al n. 125 del Registro ordinanze 1959 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 307 del 19 dicembre 1959.
Vista la dichiarazione di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;
udita nell’udienza pubblica del 6 aprile 1960 la relazione del Giudice Giovanni Cassandro;
uditi l’avv. Costantino Mortati, per Oliva Rosa, e il sostituto avvocato generale dello Stato Luciano Tracanna, per il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro dell’interno.
Ritenuto in fatto
1. – Nel corso di un giudizio davanti al Consiglio di Stato su ricorso della dottoressa Rosa Oliva contro il Ministero dell’interno, fu sollevata questione di legittimità costituzionale della norma contenuta nell’art. 4 del R.D. 4 gennaio 1920, n. 39, nonché dell’art. 7 della legge 17 luglio 1919, n. 1176, sul quale quella norma si fonda. L’illegittimità di questi articoli sarebbe derivata dal contrasto in cui essi si trovano con l’art. 3, primo comma e l’art. 51, primo comma, della Costituzione, dato che la potestà che l’art. 51 conferisce al legislatore di determinare i requisiti per l’ammissione agli uffici pubblici non si riferirebbe al requisito del sesso. La violazione dell’art. 51 si sarebbe avuta anche nel caso in cui si potesse interpretare la norma contenuta in quest’articolo come quella che consente di considerare il sesso come ragione di differente capacità, stante che una limitazione siffatta non potrebbe essere contenuta in una norma priva di efficacia formale di legge come quella di un regolamento.
Il Consiglio di Stato ha precisato la questione di costituzionalità, limitandola alla norma dell’art. 7 della legge 17 luglio 1919, n. 1176, e più esattamente alla parte che esclude le donne dagli impieghi pubblici “che implicano… l’esercizio di diritti e di potestà politiche… secondo la specificazione che sarà fatta con apposito regolamento”, ritenendo che non é certo risponda alla volontà della Costituzione “l’aver affidato al potere normativo del Governo, e per di più con ampia discrezionalità, la determinazione degli impieghi pubblici non accessibili ai cittadini di sesso femminile”. Così specificata, il Consiglio di Stato ha ritenuto la questione non manifestamente infondata e tale che il giudizio non potesse essere definito indipendentemente dalla sua risoluzione e in conseguenza, con ordinanza emessa il 12 giugno 1959, ha sospeso il procedimento e trasmesso gli atti a questa Corte.
L’ordinanza notificata alle parti in causa, al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento, é stata pubblicata per disposizione del Presidente della Corte sulla Gazzetta Ufficiale del 19 dicembre 1959, n. 307.
2. – Nel giudizio si é costituita la dottoressa Rosa Oliva, rappresentata e difesa dall’avv. Costantino Mortati, depositando le sue deduzioni l’8 gennaio 1960. La tesi della difesa della dottoressa Oliva é la seguente. La norma contenuta nell’art. 51, primo comma, della Costituzione, pone una “riserva assoluta” di legge. Lo si dovrebbe dedurre già dalla stessa dizione letterale – “secondo i requisiti stabiliti dalla legge” -, che non potrebbe avere alcun altro significato se non dell’attribuzione al legislatore del potere – dovere di disporre esso soltanto “in ordine ai requisiti stessi”. Ma se ne avrebbe la riprova considerando la formulazione diversa dell’art. 97 della Costituzione che impone di provvedere all’organizzazione dei pubblici uffici “secondo disposizioni di legge”, con che risulterebbe chiara la volontà del legislatore di differenziare la forma necessaria per la disciplina dei requisiti di ammissione ai pubblici uffici da quella richiesta per l’organizzazione degli uffici.
Da ciò discenderebbe il divieto per il legislatore di rimettere ad una qualsiasi fonte secondaria anche soltanto parte della disciplina della materia e l’illegittimità dell’art. 7 della legge 17 luglio 1919, n. 1176, che ha rinviato ad apposito regolamento, con una formula generica che non potrebbe valere neppure quale determinazione dei criteri direttivi richiesta per la “riserva relativa” di legge, la specificazione degli impieghi i quali implichino l’esercizio di diritti e potestà politiche.
Né potrebbe opporsi a questa conclusione che la Costituzione sopravvenuta non può determinare vizi formali di norme anteriori, dato che l’eccezione sollevata tende al rispetto non già di una norma di procedimento ma di una sostanziale quale é quella che vuole tutelare i diritti fondamentali del cittadino condizionandone ogni limite all’intervento diretto ed esclusivo del legislatore.
3. – Nel giudizio si é costituito il Ministro dell’interno ed é intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, entrambi rappresentanti e difesi dall’Avvocatura dello Stato, depositando le proprie deduzioni il 30 novembre 1959.
L’Avvocatura dello Stato, premesso che la sola questione di costituzionalità é quella dell’art. 7 della legge 17 luglio 1919, n. 1176, “sotto il profilo delle concrete modalità di attuazione od esplicazione della riserva legislativa” dell’art. 51 della Costituzione, sostiene che la questione sarebbe palesemente infondata sotto un duplice profilo: preliminare e di merito.
In via preliminare, infatti, la proposta questione di legittimità sarebbe infondata perché al momento dell’emanazione della legge del 1919 non esisteva riserva di legge, posta poi dall’art. 51 della Costituzione. Non si potrebbe pertanto imputare alla legge la trasgressione di una norma che “all’epoca non esisteva”. E quando anche la norma dell’art. 7, che conferisce una delega di poteri all’esecutivo, fosse da ritenere attualmente illegittima, “il regolamento emesso in base a tale delega sarebbe da considerare pur sempre valido”.
Più specificamente, sostiene l’Avvocatura che la riserva di legge altro non sarebbe se non una norma di ripartizione di competenze tra i due poteri (legislativo ed esecutivo) ai quali nel nostro ordinamento é attribuita la produzione delle norme giuridiche, e, come tale, sarebbe efficace per il nuovo ordinamento introdotto dalla Costituzione, ma non potrebbe invalidare un atto posto legittimamente in base a una diversa ripartizione di competenza esistente al momento della produzione dell’atto stesso.
Comunque, la questione sarebbe infondata pure se si superasse questo profilo preliminare, dato che il precetto costituzionale dell’art. 51 sarebbe rispettato egualmente se il legislatore considerasse e regolasse il sesso come un requisito, rimettendo al potere esecutivo le modalità di applicazione. E questo sarebbe appunto il caso della norma impugnata che avrebbe posto in via generale categorie di impieghi inibiti alle donne, demandando al potere esecutivo soltanto la specificazione di codeste categorie, tanto più che questa specificazione sarebbe stata compiuta nel regolamento col rispetto dei limiti espressamente segnati dalla legge.
4. – In una memoria depositata il 24 marzo di questo anno la difesa della dottoressa Oliva, a illustrazione della sua tesi difensiva, sostiene che l’esistenza di una riserva assoluta o di legge si ricava in generale dal concorso di due elementi, quello della forma nel quale essa viene espressa e l’altro della materia alla quale essa si riferisce e che deve essere relativa ai valori fondamentali ai quali la Costituzione si ispira, e, più precisamente, ai diritti che essa proclama inviolabili. Orbene, nel caso in questione, che é quello della norma contenuta nell’art. 51 della Costituzione, con – corrono tutte e due questi elementi: quello formale – “requisiti stabiliti dalla legge” -, e quello sostanziale, che é dato dalla natura del diritto che il precetto costituzionale vuole regolato, il quale rientra tra quelli da considerare fondamentali “perché con – feriscono la caratteristica allo Stato democratico”. Il riaffermato carattere di riserva di legge che sarebbe del caso presente potrebbe consentire al massimo l’intervento della fonte secondaria soltanto per la specificazione di dettagli, che implichi l’esercizio di una discrezionalità tecnica, non di una discrezionalità amministrativa, e rende di conseguenza illegittima la norma dell’art. 7 della legge 1919, n. 1176, che é ben lungi dal porre limiti concreti e insuperabili alla normazione affidata all’Amministazione.
Quanto poi alla tesi dell’Avvocatura, secondo la quale la riserva di legge non potrebbe essere fatta valere nei confronti delle norme emanate prima dell’entrata in vigore della Costituzione, la difesa della dottoressa Oliva obietta:
1) che tale riserva era già nella Costituzione albertina, proclamata solennemente nell’art. 24, anche se era consentito al legislatore di affidare al regolamento esecutivo di disporre anche praeter legem;
2) che la riserva di legge non si risolve sempre in una semplice norma di competenza, ma che assume valore di principio sostanziale e deve sempre seguire la sorte delle norme sostanziali, tutte le volte in cui, come nel caso, essa é imposta quale condizione per poter limitare validamente la sfera dei diritti fondamentali riconosciuti ai cittadini dalla Costituzione e dichiarati “inviolabili”;
3) che ad ogni modo la Corte in due sentenze (n. 4 e n. 47 del 1957) avrebbe già ammesso il principio dell’efficacia della riserva di legge nei confronti di norme emanate anteriormente alla Costituzione.
5. – In una memoria depositata anch’essa il 24 marzo di quest’anno l’Avvocatura dello Stato riprende e svolge le sue tesi e quella, preliminare, della non applicabilità del precetto dell’art. 51 alle norme anteriori alla Costituzione e l’altra, di merito, della costituzionalità della norma impugnata, si tratti di riserva di legge, assoluta o relativa.
In particolare l’Avvocatura sostiene che anche quando la norma dell’art. 51 avesse efficacia sulle norme anteriori alla Costituzione non ne conseguirebbe la caducazione del regolamento, per il motivo che nell’ordinamento precedente, nel caso di abrogazione della norma di autorizzazione, veniva a cessare la potestà che la norma stessa riconosceva al potere esecutivo, non già il regolamento emanato sul fondamento di questa medesima potestà. La caducazione del regolamento discenderebbe dalla illegittimità costituzionale della norma che l’ha previsto, soltanto nel caso di illegittimità costituzionale sostanziale conseguente all’entrata in vigore della Costituzione. Ma non sarebbe il caso dell’art. 7 della legge 1919, dato che la Costituzione, come del resto avrebbe già affermato questa Corte, con la sentenza n. 56 del 1958, non avrebbe inibito al legislatore di stabilire con riferimento al sesso esclusioni da impieghi e funzioni pubbliche. Dal che l’Avvocatura trae la conseguenza che la questione di legittimità dell’art. 7 si verrebbe sostanzialmente a ridurre alla questione di legittimità del regolamento del 1920 e come tale sarebbe manifestamente inammissibile. Infine, e, come asserisce, “per compiutezza di difesa”, l’Avvocatura dello Stato sostiene che l’esclusione delle donne dalla carriera dell’Amministrazione dell’interno sarebbe pienamente giustificata sia alla stregua delle categorie fissate nell’art. 7 della legge del 1919, sia in base ad una valutazione delle differenti attitudini delle persone dei due sessi quale potrebbe essere compiuta dal legislatore anche oggi in base ai principi fissati nella sentenza n. 56 di questa Corte.
6. – Nell’udienza del 6 aprile 1960 le parti hanno confermato le loro tesi e insistito nelle conclusioni già prese.
Considerato in diritto
1. – Nell’ordinanza la questione di costituzionalità sembra prospettata principalmente, se non esclusivamente, sotto un profilo particolare: quello, cioè, secondo il quale la norma contenuta nell’art. 7 della legge 17 luglio 1919, n. 1176, si porrebbe in contrasto col precetto del primo comma dell’art. 51 della Costituzione, per il fatto che attribuisce al regolamento la potestà di specificare gli impieghi pubblici che implicano l’esercizio di diritti e di potestà politiche, l’ammissione ai quali é preclusa alle donne. E anche le parti hanno trattato prevalentemente questo punto e negli scritti difensivi e nella discussione orale.
Senonché la Corte non può non osservare che la norma impugnata dispone in primo luogo l’esclusione delle donne da tutti i pubblici uffici che comportano l’esercizio di diritti e potestà politiche, riservando alla legge di determinare i casi eccezionali di ammissione delle donne a taluno di essi, e, viceversa, al regolamento di specificare quali siano quelli ricompresi nella categoria generale: una riserva che inerisce strettamente al precetto principale posto dalla norma e che ha senso appunto in ragione di questo legame. La Corte deve pertanto portare il suo esame sulla norma tutt’intera, così, del resto, come l’ordinanza stessa l’ha enucleata dall’art. 7, non già soltanto su una sua parte. Ora, non può essere dubbio che una norma che consiste nello escludere le donne in via generale da una vasta categoria di impieghi pubblici, debba essere dichiarata incostituzionale per l’irrimediabile contrasto in cui si pone con l’art. 51, il quale proclama l’accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive degli appartenenti all’uno e all’altro sesso in condizioni di eguaglianza. Questo principio é stato già interpretato dalla Corte nel senso che la diversità di sesso, in sé e per sé considerata, non può essere mai ragione di discriminazione legislativa, non può comportare, cioè, un trattamento diverso degli appartenenti all’uno o all’altro sesso davanti alla legge. Una norma che questo facesse violerebbe un principio fondamentale della Costituzione, quello posto dall’art. 3, del quale la norma dell’art. 51 é non soltanto una specificazione, ma anche una conferma.
2. – Senonché, l’Avvocatura dello Stato ritiene che la Corte abbia dato dell’art. 51 un’interpretazione che consentirebbe al legislatore di stabilire esclusioni o ammissioni a pubblici uffici, muovendo dall’appartenenza all’uno o all’altro sesso di coloro che aspirano ad accedervi. Ma non é questa, così genericamente definita, la portata della sentenza n. 56 del 26 settembre 1958. L’art. 51 o, più esattamente, l’inciso “secondo i requisiti stabiliti dalla legge” non sta punto a significare che il legislatore ordinario possa, senza limiti alla sua discrezionalità, dettare norme attinenti al requisito del sesso, ma vuol dire soltanto che il legislatore può assumere, in casi determinati e senza infrangere il principio fondamentale dell’eguaglianza, l’appartenenza all’uno o all’altro sesso come requisito attitudinario, come condizione, cioè, che faccia presumere, senza bisogno di ulteriori prove, l’idoneità degli appartenenti a un sesso a ricoprire questo o quell’ufficio pubblico: un’idoneità che manca agli appartenenti all’altro sesso o é in possesso di costoro in misura minore, tale da far ritenere che, in conseguenza di codesta mancanza, l’efficace e regolare svolgimento dell’attività pubblica ne debba soffrire. Ora che questo non sia il caso della norma impugnata é di tutta evidenza. In essa, infatti, il sesso femminile é assunto come tale a fondamento di incapacità o di minore capacità, non già a requisito di idoneità attitudinale, per una categoria amplissima di pubblici uffici (e, ch’é più, di incerta definizione e, in conseguenza, di vaghi confini), in via di regola, non già in via di eccezione e con riferimento concreto a particolari situazioni, ponendosi, anzi, in via d’eccezione e con rinvio alla legge, il caso di ammissione delle donne a taluno degli uffici ricompresi nella categoria generale di esclusione. La sua illegittimità costituzionale é pertanto evidente al lume della giurisprudenza di questa Corte.
Con che, peraltro, si é anche detto come il legislatore possa intervenire a regolare l’ammissione ai pubblici impieghi in ragione dell’appartenenza all’uno o all’altro sesso, per dare all’intera materia la necessaria disciplina richiesta dal sopravvenuto precetto costituzionale.
3. – Stando così le cose, la questione intorno alla quale si sono affaticate le parti, perde ogni rilievo nel presente giudizio. Poco importa, infatti, ricercare la legittimità di una disposizione che attribuisce al potere regolamentare la potestà di elencare gli uffici che “implichino l’esercizio di diritti e di potestà politiche” e che pertanto respingono da sé le donne, quando é in primo luogo illegittima la norma, della quale quella disposizione é parte inscindibile, che esclude le donne da quella categoria di uffici pubblici e in ragione di siffatta esclusione. E poco importa, in conseguenza, esaminare il quesito proposto dalla difesa della dottoressa Oliva se e come una norma di procedimento o una norma attributiva di competenze possa assumere il valore e l’efficacia di una norma sostanziale e, in quanto tale, spiegare i suoi effetti anche in confronto di norme anteriori all’entrata in vigore della Costituzione. Né, infine, la Corte può pronunciarsi sull’altro quesito – proposto dall’Avvocatura dello Stato -, che é della validità di un regolamento emanato in base a una norma promulgata prima dell’entrata in vigore della Costituzione e poi dichiarata illegittima, quesito che é di competenza del giudice amministrativo.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale della norma contenuta nell’art. 7 della legge 17 luglio 1919, n. 1176, che esclude le donne da tutti gli uffici pubblici che implicano l’esercizio di diritti e di potestà politiche, in riferimento all’art. 51, primo comma, della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 maggio 1960.
Gaetano AZZARITI – Giuseppe CAPPI – Tomaso PERASSI – Gaspare AMBROSINI – Ernesto BATTAGLINI – Mario COSATTI – Francesco PANTALEO GABRIELI – Giuseppe CASTELLI AVOLIO – Antonino PAPALDO – Nicola JAEGER – Giovanni CASSANDRO – Biagio PETROCELLI – Antonio MANCA – Aldo SANDULLI – Giuseppe BRANCA.
Depositata in Cancelleria il 18 maggio 1960.